Roberto Ferrari, architetto
Davide Fusari
Signorile nei tratti, distinto nei modi, Roberto Ferrari (1949-2025) ha rappresentato con fine eleganza la figura dell’architetto nello scenario trentino del nostro tempo.
Preparato, colto, aggiornato eppure senza la presunzione del voler apparire in un contesto troppo spesso caratterizzato dall’evanescenza di modi d’essere che confondono la forma con la sostanza.
Del padre, quell’Efrem Ferrari protagonista della ricostruzione trentina e progettista di innumerevoli chiese sparse sul territorio provinciale e non solo, parlava con familiare riserbo e filiale affetto, sottolineando il proprio giovanile affrancamento alla ricerca di una via propria al fare architettura, evidenziando al contempo curiosità sincera per le ricerche che altri dedicavano alla sua produzione. Ne è testimonianza l’interesse rivolto alla Diocesi di Mantova che ha recentemente approfondito la storia della chiesa di San Luigi Gonzaga, ivi eretta nel poverissimo quartiere del “Tigrai” e da lui progettata su commissione dei Cappuccini trentini.
Ma era un pudore, quello di Roberto, legato anche alla approfondita conoscenza di vicende personali, talvolta dolorose, velate dietro una borghese riservatezza che altri coinvolgevano e che preferiva non svelare. Un pudore che emergeva anche negli interventi legati alla cronaca locale dove il suo equilibrio era sempre marcato senza per questo mancare di far sentire la propria opinione, prudente e concisa.
Conversare con lui lasciava affascinati.
La finezza dei tratti e la naturale ricercatezza dei modi, la passione per l’arte e pulizia degli schizzi che tracciava, rimandavano immediatamente a corrispondenti segni nei progetti e nelle opere da lui costruite, opere che hanno attraversato gli -ismi della terza parte del Novecento in maniera discreta, personale, rigorosa.
Del resto è sufficiente scorrerne per cenni i lavori per evidenziare una coerenza che, pur presentando quella cifra nel tappeto di cui parla Henry James, non sono mai citazione o ripetizione di se stessi.
L’intervento di recupero al Centro Santa Chiara a Trento, progettato con Alberto Cecchetto, ridefinisce l’edificio esistente valorizzando la scatola tanto come contenitore quanto reinterpretandone la spazialità con nuovi orizzontamenti e sistemi distributivi verticali e ne ridefinisce il valore urbano attraverso setti curvilinei in pietra e pensiline metalliche che rilegano il padiglione al parco circostante.
L’equilibrio tra dimensione urbana e ricerca tipologica caratterizza anche il Palazzetto dello sport alla Vela, sempre a Trento, in cui, in un contesto marginale, periferico, privo d’identità specifica, una semicorte centrale si fa piazza e distribuisce un organismo architettonico dove, al compluvio del corpo unitario principale, fà corona una scansione di volumi geometricamente definiti che, ospitando le funzioni sportive, prospettano i loro profili verso i lacerti di paesaggio ancora presenti, solcati dalla prepotenza dei sistemi infrastrutturali sovraimposti.
É di nuovo il carattere urbano, unito ad una non scontata ricerca del dettaglio architettonico, che contraddistingue tre complessi residenziali, a scala diversa: il condominio di via delle Ghiaie, lo studentato di San Bartolomeo e l’intervento di ricucitura di corso Tre Novembre.
Non da ultimo vanno ricordati alcuni pionieri interventi di recupero, soprattutto in provincia, come la sede del Comprensorio dell’Alta Valsugana a Pergine e la Cassa rurale di Strembo dove comparti edilizi articolati vengono rifunzionalizzati, adeguati all’uso contemporaneo nel rispetto delle preesistenze e riconnessi al loro contesto.
Fare architettura dunque per fare città, per costruire relazioni, per stabilire presenze urbane nel vissuto e nella società di oggi.
Questi temi, a loro modo, sono un’eredità della generazione di Roberto Ferrari che su di essi ha studiato e si è formata.
Ma il suo è stato un “fare città” senza indulgere nella teoria e nell’astrazione, nel disegno fine a se stesso, bensì radicato nella concretezza del cercare di “farlo bene”.
Perché è nella città vissuta e nei suoi dettagli che l’uomo abita e che trova la sua identità.
Fare città sempre, anche quando si interviene dove la città ancora non c’è, dove è in divenire, dove il tessuto urbano è lacerato o sostituito da altre matrici che introducono morfologie e scale affatto diverse.
Compimento di questo assioma può essere considerato l’intervento dell’Interporto, progettato in collaborazione con Mauro Facchini. Tra tutti i progetti partecipanti al concorso a suo tempo indetto, scorrendone il catalogo e visitandone l’esito fortunatamente costruito, colpisce la ricerca di un edificio che, seppur formalmente articolato, sintetizza armonicamente un’architettura che contrappone a un “non luogo” un luogo identitario e riconoscibile dove l’esterno e l’interno descrivono un assemblaggio di volumi che interseca tipologie diverse in un insieme che compone figure e spazi da percorrere e abitare.
Impegnato per la tutela della professione, aveva retto l’Ordine degli Architetti come Presidente dal 1993 al 2001 e ne era stato consigliere per oltre vent’anni. Anni impegnativi, tratteggiati da alcune problematiche che si erano ripercosse anche a livello locale, gestite con con diplomazia e equilibrio. Anni nei quali, inoltre, la nostra categoria stava cercando modi diversi di esprimersi e di affrontare la cultura dell’architettura con la nascita di associazioni forse dapprima non comprese ma poi apprezzate e sostenute.
Inappuntabile come di consueto aveva partecipato lo scorso anno al saluto per il pensionamento della nostra storica segretaria Lorenza con estrema gentilezza e finezza, ricordandoci la dimensione umana del nostro ruolo, sempre.